Come la musica è diventata uno specchio e non più un suono
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La musica è diventata un filtro:
ti serve per costruire un’emozione da mostrare, non da sentire.
Il resto — disco, storia, discografia, identità — è rumore di fondo.
Questo articolo non è un lamento nostalgico.
È un’autopsia.
Partiamo da MTV, passiamo dai biglietti a 500 euro per la reunion degli Oasis, arriviamo alla folla che si commuove per Experience di Einaudi… senza sapere chi è Einaudi.
La chiamerò Sindrome Einaudi.
E no, non è una moda passeggera. È un meccanismo che si ripete.
Sempre uguale. Sempre più vuoto.
Quando la musica smise di essere solo da ascoltare
Ricordo esattamente il momento in cui la musica, per me, ha smesso di essere solo da ascoltare.
Era la metà degli anni ’90. Accendevo la TV e trovavo Videomusic, che poi sarebbe diventata MTV Italia nel 1997. I videoclip scorrevano uno dopo l’altro, ed era impossibile distogliere lo sguardo.
Quel che prima sentivo soltanto, ora lo guardavo, lo vestivo, lo imitavo.
In realtà, MTV era nata già nel 1981 negli Stati Uniti, con una missione chiara: trasformare la musica in immagine. Il primo video trasmesso fu Video Killed the Radio Star dei Buggles — un titolo che, col senno di poi, era una profezia.
Il videoclip non era più un accessorio. Era il centro.
La musica si consumava con gli occhi: tra outfit, montaggi frenetici, look iconici.
Gli artisti non si ascoltavano più soltanto. Si guardavano.
In quel periodo, ogni brano aveva il suo universo visivo:
- Michael Jackson e i suoi video-evento che sembravano film.
- Madonna che cambiava volto e voce a ogni uscita.
- I Nirvana, i Radiohead, i Blur che avevano una precisa identità estetica.
Era l’epoca in cui la musica entrava nella cultura pop non solo per le note, ma per l’immaginario che evocava.
E così, senza accorgercene, abbiamo iniziato a pretendere dalla musica qualcosa di più: non bastava ascoltarla, doveva intrattenerci visivamente, rappresentarci, rifletterci.
Quello è stato il primo passaggio.
Un cambio di paradigma.
E anche se oggi MTV non è più centrale, quella mutazione non si è mai fermata: si è solo trasformata, fino a diventare — decenni dopo — una vera dipendenza visiva, amplificata dai social.
Il seme, ormai, era stato piantato.
Video killed the radio star
The Buggles
Il declino dell’era MTV e l’inizio della musica usa-e-getta
Con l’arrivo degli anni 2000, qualcosa ha iniziato a scricchiolare. MTV, che una volta era il nostro portale sull’immaginario musicale globale, cambiava pelle. Sempre meno videoclip, sempre più reality, format sponsorizzati, contenuti pop usa-e-getta.
Ricordo benissimo quando MTV Italia iniziò a mandare in loop programmi come Pimp My Ride, Laguna Beach, o Jersey Shore: la musica passava in secondo piano. Era il sintomo di un cambio epocale.
Nel frattempo, YouTube stava nascendo (2005).
Spotify sarebbe arrivato poco dopo (2008).
La fruizione musicale si stava digitalizzando, frammentando, disintegrando in tracce isolate.
Non si ascoltavano più album, né si aspettava il sabato per vedere MTV Select o TRL.
Si cercava una singola canzone.
Si cliccava play.
E se dopo 7 secondi non piaceva, si saltava.
Skip
Skip
Skip.
Così è nata una musica senza contesto, una generazione di ascoltatori che non conoscono più i dischi, ma solo le playlist.
Siamo diventati consumatori di brani-istantanei, di pezzi che devono funzionare subito, da soli, fuori da qualunque narrazione.
E la cosa più assurda?
Il video, che sembrava morto, è tornato — ma in forma mutante.
Non più videoclip narrativi, ma loop visivi brevissimi, pensati per essere scrollati, non vissuti.
Oggi, la musica che “funziona” è quella che buca il feed, che genera engagement, che fa parte del contenuto, non il contenuto stesso.
E tutto questo ci ha portati — senza che ce ne accorgessimo — alla fase infestante di quel seme piantato anni fa.
Una musica che non si ascolta più per sé stessa, ma per ciò che permette di mostrare.
Ed è qui che nasce quella che ho chiamato La Sindrome Einaudi.
L’edera digitale: la musica rispunta… ma per aggrapparsi a noi
Oggi la musica non è più un’esperienza sonora. È diventata un codice visivo.
E come l’edera, si è arrampicata su ogni superficie possibile: feed di Instagram, reel di TikTok, storie, vlog, reel estetici, video motivazionali, ricordi costruiti.
Quel seme piantato negli anni ’80 con MTV è ricomparso, ma mutato geneticamente.
Non ha più bisogno di un intero videoclip per entrare nella testa delle persone.
Bastano 15 secondi di un ritornello. Un crescendo emotivo. Un frammento sincronizzato con le immagini giuste.
La musica oggi non è più centrale, ma decorativa.
Serve a trasmettere uno stato d’animo, ad accompagnare una narrazione visiva — spesso simulata — che ci racconta “chi siamo”, o meglio: chi vogliamo apparire.
Einaudi ne è l’emblema.
Il suo brano Experience è diventato la colonna sonora universale delle emozioni prefabbricate.
L’ho visto su reel di proposte di matrimonio, su video di tramonti africani, su storie con lacrime digitali perfettamente illuminate da un faretto.
Ma la cosa più potente — e inquietante — è che tutto questo ha avuto una conseguenza reale:
le persone hanno iniziato ad acquistare i biglietti per i concerti solo per registrare dal vivo quei 90 secondi di Experience.
Anche se non conoscevano nulla del resto della sua produzione.
Anche se, forse, non avevano mai ascoltato nemmeno il brano per intero.
Il concerto non è più un evento musicale, ma un palcoscenico personale, un luogo dove documentare sé stessi dentro un’atmosfera che sembra autentica.
La musica, oggi, non cresce. Si arrampica.
Come edera. Come filtro.
E in questa risalita, soffoca tutto il resto.
La Sindrome Einaudi
A questo punto il meccanismo è chiaro.
Un brano diventa virale. Diventa la colonna sonora.
Le persone lo associano a momenti intensi — spesso nemmeno vissuti, ma immaginati.
E scatta il riflesso: “devo esserci anch’io”.
Ecco allora che migliaia di utenti si precipitano a comprare il biglietto per vedere dal vivo Ludovico Einaudi.
Non per scoprire la sua carriera.
Non per vivere un’esperienza musicale piena, dal primo pezzo all’ultimo.
Ma per registrare dal vivo quel singolo momento virale, quello che hanno già visto mille volte online.
È l’effetto Experience.
Una corsa al biglietto guidata da FOMO culturale, dalla paura di non avere qualcosa da mostrare.
E non è limitato a Einaudi: lo stesso accade con Peggy Gou e It Goes Like (Na Na Na), o con Tom Odell e Another Love.
È così che nasce la Sindrome Einaudi:
Un fenomeno culturale in cui la fruizione musicale viene sostituita dal desiderio di documentare la partecipazione a un’esperienza virale, anche se decontestualizzata, ridotta a un solo brano, spesso nemmeno compreso.
Non si va più a un concerto per ascoltare.
Si va per esistere in quell’unico momento, e trasformarlo in contenuto.
Non importa la scaletta, il bis, le improvvisazioni.
Importa aver ripreso “quel” brano, dal vivo, con le luci giuste.
L’autore? È solo lo sfondo.
L’esperienza? Un pretesto.
La musica? Un riflesso.
Oasis e Adidas: la nostalgia che diventa travestimento
L’ultimo esempio lampante di Sindrome Einaudi lo abbiamo visto pochi giorni fa, con la reunion mondiale degli Oasis.
Un evento storico, atteso da anni, che ha fatto il tutto esaurito in pochi minuti già nel 2024, con biglietti venduti anche a oltre 500 euro grazie al dynamic pricing.
Ma la notizia non è solo il ritorno della band.
La notizia è chi era lì sotto al palco.
Una marea di ragazzi e ragazze che nel 1995 non erano ancora nati.
Che non hanno mai vissuto l’epoca d’oro del Britpop.
Che non sanno cosa significava ascoltare Morning Glory con le cuffiette a nastro o attendere l’uscita di un singolo da HMV.
Molti di loro non conoscevano nemmeno le canzoni, al di là di Wonderwall.
Eppure c’erano.
Tutti vestiti Adidas, con magliette “vintage” e pose perfette per TikTok.
Non per celebrare la musica. Ma per fare parte di un frame culturale virale.
Aspettavano quel momento: il riff di Wonderwall, il coro da registrare, il video da postare.
E appena finito, per alcuni, il concerto era finito davvero.
Il resto era contorno.
Musica di cui non avevano bisogno, perché non serviva più a nutrire, ma solo a legittimare la presenza.
Il paradosso è servito:
chi non ha mai vissuto l’originale, oggi lo mima per alimentare una narrazione pubblica.
Un travestimento nostalgico, una coreografia collettiva in cui la musica vera è accessoria.
Questa è la Sindrome Einaudi:
La manifestazione di un pubblico che non va più a un concerto per l’artista, ma per partecipare a un rituale virale, da documentare e condividere, anche senza comprenderlo o viverlo fino in fondo.